lunedì 27 maggio 2013

SONO TUTTI LADRI. E TUTTI DOPATI.

Nel 1998, quando avevo 10 anni, Marco Pantani si involava sul Galibier lasciandomi un segno che non se n'è più andato. A quell'età si ha bisogno di eroi ed il ciclismo, solo il ciclismo, è in grado di regalare imprese straordinarie. Da quell'anno, ogni anno, seguo il Giro d'Italia. 
Nel frattempo sono cresciuto, oltre al ciclismo ho cominciato ad interessarmi di politica, e ho aperto questo piccolo blog. Le due cose, fino a sabato, non si erano mai incrociate. Poi è arrivata la tappa numero 20 del Giro 2013.
Mentre Vincenzo Nibali, detto lo Squalo, nato a Messina il 14 Novembre del 1984, si alzava sui pedali sulla salita delle Tre Cime di Lavaredo, subito il mio pensiero è andato alla politica. Sarò fissato, penserà qualcuno senza avere tutti i torti. Provo a spiegarmi.
Il ciclismo, come la politica, arrivano da lontano. Arrivano dall'umiltà e dalla semplicità di vite dedicate a cause per cui vale la pena lottare. Hanno consegnato alla storia giganti in bianco e nero, gesti epici, scelte coraggiose. Hanno tirato fuori l'Italia dalle macerie. Poi sono entrati in un tunnel. Il doping ha falcidiato la credibilità del ciclismo, una classe dirigente priva di scrupoli ha ucciso le bellezza del servire la propria comunità. Tutti i politici sono uguali, tutti i ciclisti sono dopati. Tutti rubano. Tutti si dopano. 
Da queste parti, controcorrente, ho cominciato a fare politica proprio perché sentivo l'esigenza di doverla cambiare e ho continuato a guardare il Giro d'Italia aspettando di provare le stesse sensazioni di quel lontano pomeriggio del 1998, continuando comunque a credere che non fossero tutti dopati. 
Poi è iniziato il Giro d'Italia 2013.
Vincenzo Nibali, contro i giganti stranieri, contro il doping, contro le intemperie del vento, si è alzato sui pedali sotto la bufera di neve e con tre scatti secchi ha fatto il vuoto. Avrebbe anche potuto evitare. Avrebbe anche potuto controllare gli avversari, i 4 minuti di vantaggio che aveva già accumulato gli sarebbero bastati. Invece no. Ha rischiato. Non ha voluto andarsi a prendere solo la vittoria. Ha voluto andarsi a prendere la storia. Ha voluto regalare un po' di credibilità allo sport che ama. Ha macinato percentuali di pendenze da brivido, è sbucato dalla tormenta, ha dedicato un pensiero prima alla squadra e poi alla moglie e ha tagliato il traguardo e vinto, riportando il ciclismo italiano fuori dal tunnel in cui si era cacciato. 
La politica, invece, nel tunnel ci è ancora dentro fino al collo.
Incontriamo intemperie, la natura di certi personaggi è complicata da combattere, alcuni meccanismi che ci strangolano sembrano inamovibili, non incontriamo più persone disposte ad ascoltare le nostre ragioni e la nostra passione. Siamo nel mezzo della tormenta. Serve una squadra che non abbia paura di soffrire, che sappia combattere unita e che al momento opportuno ci sia qualcuno in grado di alzarsi sui pedali mandando fuori giri chi in questi anni ha pensato di essere il padrone del nostro futuro. Ci potremmo ritrovare poi tutti insieme sul podio, come ha fatto ieri Vincenzo insieme ai suoi compagni di squadra dell'Astana. Con la maglia rosa addosso. Quella che ci garantirebbe la possibilità di dimostrare che questo Paese lo amiamo e vorremmo che fosse un posto dove è bello vivere, immaginando il futuro per i nostri figli. 
Sabato, mentre guardavo pedalare Vincenzo, 28 anni da Messina, mi sono emozionato. Pensando al compito enorme che ha davanti la mia generazione e alla grandissima impresa di questo nuovo campione.