Leggo in questi giorni molti super mega editorialisti scrivere che sì, il centrosinistra ha perso, MA la legge elettorale, MA il sostegno al governo Monti, MA la crisi. Non per cause legate al fatto che non abbiamo saputo prospettare il cambiamento, né perché non siamo in grado di suscitare la speranza di un qualche tipo di miglioramento. Certo. Queste cose non contano.
E tutti a rincorrere l'editoriale di Scalfari, o di Galli della Loggia, senza capire che i giornali non li legge più nessuno. E via a complimentarsi l'uno con l'altro perché non si sa nemmeno chi è Marracash o Schelotto. Non abbiamo ancora capito che c'è un totale scollamento fra noi e la realtà che viviamo, chiusi nella nostra micro comunità, con il tasso di conoscenza di persone che hanno votato 5 stelle inversamente proporzionale al tempo dedicato al partito. Questo non può più essere. Non ci si può calare altezzosi in questa realtà culturale con malcelato senso di superiorità.
Come ha detto ieri Civati, oltre a dare del becero populista a Grillo, vogliamo accusare allo stesso modo lo studente universitario che lo vota, o il disoccupato, o la casalinga che non riesce a far quadrare i conti alla fine del mese? O forse dobbiamo cominciare anche noi a fare i conti con la pancia della gente? L'uomo non è solo razionalità. Paradossalmente questo aspetto è vero soprattutto quando si parla di politica. Noi, di emozioni, in questa campagna elettorale, ne abbiamo suscitate poche, se non nessuna.
Cosa fare allora?
Qualcuno già lavora a nuovi contenuti, senza comprendere che, in buona parte, ce li abbiamo già lì, prova ne sono gli otto punti proposti (con qualche mese di ritardo?), da Bersani. Il problema è più profondo. Perché i contenuti viaggiano sulle parole e le parole arrivano alle persone quando queste sono in grado di decodificarle. Quando il linguaggio utilizzato è condiviso, e quindi comprensibile sia dall'emittente che dal destinatario, arriva in tutta la sua semplice complessità. Sono le regole basiche della comunicazione.
Serve che si cominci ad utilizzare un linguaggio che non fondi le sue radici nel '900. Adatto ai nuovi mezzi che abbiamo a disposizione. Abbiamo inseguito per anni l'antiberlusconismo, abbiamo difeso con tutte le forze le istituzioni senza comprendere che quel rispetto si stava sbriciolando sotto i colpi di bollette non pagate e di lavoro inesistente (prova ne è la vittoria di Maroni in Lombardia).
L'ho già scritto in questi giorni, ma lo ribadisco. Questo partito, purtroppo, è nei fatti un partito conservatore, arrogante, spesso arroccato su posizioni derivanti da una storia politica che troppo spesso diventa fardello e non spinta propulsiva. E invece in tanti sogniamo un partito vivo, radicato, ma allo stesso tempo elastico nei confronti delle sfide e dei cambiamenti che la storia ci mette davanti con sempre maggior velocità e sempre maggior forza. E la generazione appena più grande della mia, quella dei trenta quarantenni, ha una responsabilità immane davanti a sé. E' tempo di rinunciare agli egoismi e ai protagonismi. E' tempo di fare squadra. Perché le future divisioni dovranno essere, se vogliamo sopravvivere, pre politiche, e riguarderanno proprio quel cambiamento di linguaggio, quel modo nuovo di stare nella società risolvendone i problemi. Senza ricominciare con liberisti e socialdemocratici. diessini e margheriti, pesanti o leggeri, ecc. ecc. Ricominciare con quel dibattito significherebbe essere divisi, e quindi sconfitti in partenza. Dimostrare di saper fare sintesi proprio grazie ad una nuova modalità di vivere la politica equivarrebbe, io credo, ad una vittoria certa. Perché il Paese, e quindi il Pd, hanno sete di cambiamento.
Serve uno strappo. Che è sempre doloroso. Che lascerà inevitabilmente qualcuno indietro. Ma che ci farà incontrare nuove persone, regalando proprio quella prospettiva che in tanti non vedono più. Accusando la politica, e quindi la democrazia, di essere inutile e lontana dalle loro vite.
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